Lunedì anche in Veneto gli studenti della Scuola Secondaria di secondo grado torneranno, per metà, a sedersi ai loro banchi. Si è parlato per mesi della loro frustrazione, del loro bisogno di uscire di casa (la prigione dell’adolescente), di relazionarsi con i compagni, gli amici, di interfacciarsi con i docenti, con il mondo reale e non digitale, dietro cui tendono fin troppo a rifugiarsi. Di questa loro frustrazione ne ha parlato anche lo psicoanalista Recalcati, in un’intervista televisiva, portando l’attenzione sulla necessità dei giovani, in quest’epoca storica segnata dalle distanze e dalla solitudine cui il Covid ci ha costretti, di sviluppare la resilienza, ovvero di imparare a resistere a queste frustrazioni per uscirne rinforzati.
Tutto giusto. Sì.
C’è un però. Da psicoterapeuta dell’età evolutiva voglio sottolineare il dietro le quinte che molti ragazzi vivono di fronte al rientro a scuola. Non si tratta di tutti i giovani, ma di una buona fetta, di cui si parla troppo poco perché è la fetta silenziosa dei ragazzi e delle ragazze che non si fanno sentire, non perché non abbiano una voce ma perché le loro sofferenze e il loro dolore sono così forti da murarli dentro le loro stesse vite impedendo loro quella libertà che dovrebbe caratterizzare la loro fase evolutiva.
Infatti, in questa settimana che precede il ritorno a scuola, nei molti colloqui con i miei e le mie adolescenti, sono emersi contenuti di cui si sente parlare poco. Se alcuni sono entusiasti di riabbracciare la realtà scolastica, molti altri sono attanagliati dall’angoscia di riaffrontare ciò che la DDI (didattica digitale integrata) ha tenuto lontano da loro: il confronto con il mondo reale, con quei compagni con i quali casomai non si è nemmeno riusciti a legare perché si è stati insieme solo poche settimane a inizio anno scolastico, o con i docenti che fino ad ora e per mesi (considerando anche l’anno scolastico passato) li hanno valutati da remoto e non in piedi alla lavagna. La DDI ha tenuto lontana anche l’ansia di mostrarsi non solo con il proprio corpo, così per quello che è, con le acne, i propri “chili” considerati di troppo, e tutti quei difetti che fanno percepire la vita impossibile (spesso la dismorfofobia si collega alla fobia scolare); ma ha tenuto lontano anche il rischio di manifestare la timidezza e le difficoltà relazionali (che, lo sappiamo, in whatsapp non emergono mai).
Aggiungiamo a questo il fatto che, per quanto alcuni pochi (illuminati!) docenti abbiano cercato di rendere questi mesi di DDI comunque positivamente significativi per i giovani, ce ne sono molti altri che si sono barricati dietro i loro programmi da seguire e il motto del “chi c’è c’è, chi non c’è pazienza” = “non so come guadagnarmi l’attenzione dei miei alunni per cui vado avanti come so fare”, con la conseguenza di aver perso per strada i ragazzi.
Ecco che, nella mia statistica clinica, è frequente che i ragazzi siano estremamente preoccupati rispetto a come proseguirà il loro andamento scolastico: “Ho paura di non riuscire a rimanere concentrato ora che ricominceranno le lezioni in classe”, “Non so come farò a stare senza il cellulare per 5/6 ore. A casa ci scrivevamo sempre, anche durante la lezione. Mi annoierò di sicuro”, “Sono in panico perché dò per scontato che avrò un calo dei voti. Con le verifiche a casa in qualche modo riuscivo a cavarmela, a scuola non sarà la stessa cosa”.
Insomma, non per tutti i ragazzi e le ragazze il ritorno a scuola sarà motivo di festa e spero che i docenti e i genitori che inciamperanno nella lettura di queste poche righe, possano tener presente anche questi aspetti, rimanendo in ascolto dei giovani andando oltre alla classica e limitata domanda del “Come è andata a scuola?” e aprendosi piuttosto ad un “Come stai?” più sincero, attento e accogliente.